LA “PAROLA” DELLA DOMENICA
31.1.21 Comunità Sorella Luna, Roma
(Riflessioni, emozioni, sollecitazioni operative correlate alla omelia domenicale di Don Nicola Bari)

Riconosciamoci come comunità in cammino, disponibile ad accogliere la novità.
La vita va testimoniata e non ci sono libri o teorie che bastino.
È dalla periferia, dalla realtà meno frequentata, dal proprio territorio, dalla comunità, ma anche da noi stessi, che dobbiamo ripartire.
Il cammino più difficile, ma anche quello più proficuo per ogni essere umano, è quello dentro se stessi, alla scoperta di quello che ciascuno di noi veramente è.
“Da domenica scorsa abbiamo iniziato a leggere il vangelo di Marco, un Vangelo ispirato anche alla testimonianza di San Pietro, impegnato a edificare la Chiesa di Roma”.
Don Nicola inizia così la sua riflessione domenicale suggerendoci una stimolante chiave di lettura.
Innanzitutto il riferimento alle periferie (Cafarnao) e alla Sinagoga. Quasi a significare la necessità, per avviare il cammino, ogni cammino di conoscenza, di partire da se stessi, o meglio ancora dalla comunità di cui si fa parte.
In altri termini, “cominciamo da noi”, se vogliamo insegnare credibilmente qualcosa a qualcuno.
Don Nicola fa questa premessa per guidarci quindi ad un passaggio ulteriore e contestualizzare efficacemente l’inquietante figura dell’indemoniato, descritto e percepito nell’immaginario collettivo come un nemico, una minaccia esterna.
In realtà, don Nicola ce lo sottolinea, l’indemoniato faceva e fa parte della Comunità, non è estraneo ad essa. Non è qualcuno o qualcosa di separato da noi.
Più che altro, l’indemoniato rappresenta la distanza tra quello che si è e quello che si fa, un’ambivalenza, peraltro, quasi connaturata con la nostra umanità. L’ambivalenza, se non l’ambiguità, che inesorabilmente ci appartiene.
E tocca riconoscerla, ammetterla, se vogliamo provare veramente a crescere in umanità. Non vale la pena certo di nasconderla.
Eppure, spesso utilizziamo varie forme di concettualizzazioni più o meno condivisibili, pur di non ascoltare il nostro cuore.
È il rischio che si corre quando ci atteniamo esclusivamente ad un approccio alla realtà solo su base intellettuale, o quando ci rifacciamo solo all’osservanza delle regole per risolvere ogni incertezza.
Ed è il rischio che, paradossalmente, corre anche chi ha fatto esperienza di attraversamento della sofferenza e del dolore e non trasforma questo bagaglio in arricchimento spirituale.
In effetti, almeno superficialmente, sembra conveniente evitare il turbamento che ci può derivare dal riconoscere il luogo interiore dei nostri sentimenti più nascosti.
Ma è pur vero che Gesù non ha chiesto ai primi discepoli alcun titolo di studio, o una specifica preparazione intellettuale per seguire la sua proposta di vita, ma ha scelto coloro i quali si facevano “toccare”, che mostravano un’apertura diversa alle sollecitazioni che la vita, e Lui stesso, proponeva loro.
L’autorità, di cui si parla nel Vangelo di oggi, corrisponde allora alla congruenza, alla capacità di testimoniare con le azioni la vita e la fede in cui si crede.
Ed è questo che spiazza e insegna veramente; non certo le parole o gli intellettualismi. È l’insegnamento del cuore, appunto, congruo e coerente. Quello “dato con autorità” che “comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono”.
E, in effetti, le esperienze di vita, e soprattutto le più sofferte, possono essere preziose e feconde.
Anche per questo c’è bisogno di persone, interlocutori attendibili, capaci di testimoniare. Difatti, la sofferenza quando è vera, tocca inesorabilmente la nostra vita e ci arricchisce.
Ma il costo della testimonianza, autentica e vera, è la riapertura di dolorose ferite.
E, a fronte del comprensibile bisogno di difendersene, magari utilizzando razionalizzazioni e intellettualismi o comunque affidandoci al solo intelletto , c’è la vita che ci interroga inesorabilmente.
Vale la pena, allora, tenere sempre aperte le “ragioni del cuore”. E l’autorità che ne deriva.
A tal proposito, don Nicola riprende l’esperienza della commemorazione della Shoah, riproposta di recente, in occasione della Giornata della Memoria. Una terribile esperienza storica che ha annientato la vita di milioni di persone innocenti, e che non si può ridurre ad un semplice racconto, né tantomeno può essere compresa con la sola ragione.
Dobbiamo invece fare appello a strumenti e sensibilità diverse.
Per esempio davanti alla Shoah, è l’esempio che don Nicola ci propone, non c’è solo, semplicisticamente la chiave di lettura che schiera da un lato il male e dall’altra il bene.
Ma c’è, come ci ha insegnato Primo Levi, testimone autorevole e sofferto della persecuzione nazista contro gli Ebrei, una “zona di mezzo”.
Don Nicola riporta, a tal proposito, la testimonianza di un sopravvissuto alla Shoah ospite a Sorella Luna, il quale ha iniziato a raccontare la sua drammatica esperienza, vissuta nell’infanzia, alla tarda età di 60 anni. Un ritardo di cui non dobbiamo sorprenderci in quanto, ci spiega don Nicola, la “zona d’ombra” nella quale custodiamo le nostre esperienze e i vissuti, più o meno dolorosi, piò o meno drammatici della nostra vita, merita rispetto e cautela, e richiede il giusto tempo per la doverosa elaborazione.
Perché si trasformi infine in patrimonio, in insegnamento, in dono per la comunità, per tutti noi.
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